Stories

Spie, spettri e storie

«Non sono un letterato. Sono uno che racconta storie. Scrivo favole per adulti. Perché la maggior parte di loro fa una vita di merda». Così diceva Gérard de Villiers, 83 anni, appena tornato dall’Afghanistan, in un’intervista rilasciata all’inizio di quest’anno al New York Times. E’ morto il 31 ottobre. Stava per scrivere il suo duecentesimo romanzo della serie dedicata a SAS, Sua Altezza Serenissima Malko Linge, principe austriaco che per restaurare il castello avito lavora come free lance per la Cia. Le precedenti avventure di questo nobiluomo, iniziate nel 1965, sono state vendute in quasi tutto il mondo per un totale di 150 milioni di copie, permettendo all’autore di vivere come il suo personaggio in una splendida casa parigina e in una villa di Saint Tropez.
L’intervista al New York Times era intitolata
L’autore di romanzi di spionaggio che sapeva troppo. Definizione perfetta, che spiega il successo delle sue storie. De Villiers metteva in pagina trame che erano straordinariamente vicine al vero. In alcuni casi lo anticipavano. Condite con sesso e violenza estremi e assoluta precisione degli scenari.
“Il vero spionaggio è così. Un intrigo nell’intrigo, trame che si contraddicono, inganni e tradimenti, controlli incrociati, agenti veri, agenti falsi, agenti doppi, oro e acciaio, la bomba, il pugnale e il plotone d’esecuzione…aggrovigliati in un ordito così intricato da risultare incredibile, eppure vero” ha scritto Winston Churchill.
“Lo spionaggio è in sé una forma narrativa, la creazione di mondi” scrive Ben Macintyre, esperto d’intelligence recensendo un romanzo di spionaggio,
An American Spy, e sospettando che l’autore, Olen Steinhauer, sia l’agente di qualche servizio. Mentre Evan Thomas, altro giornalista che studia il mondo delle spie, parla della “wilderness of mirrors”, la giungla degli specchi, citando la teoria di James Jesus Angleton, capo della sezione controspionaggio della Cia dal 1954 al ’75, che a sua volta aveva ripreso un verso di T.S. Eliot.
Anche da morto Gérard de Villiers ha la capacità d’innescare un intreccio di trame che all’apparenza inganna. Ci si perde davvero in una giungla di specchi e poco a poco non si distinguono il vero, il falso, il verosimile. Alla fine si scopre che tutto può esserlo al tempo stesso. Dipende dal mondo in cui ci ritrova, dalla storia che si legge o vive.
Io, per esempio, Gérard de Villiers lo conoscevo molto bene. Ho girato Bangkok con lui molti anni fa, prima di stabilirmi nella Città degli Angeli, come gli piaceva chiamarla. Stava scrivendo una storia ambientata qua. Non ricordo la trama. Ricordo che mi fece scoprire la città in tutti i suoi recessi. Ma non gli bastava esplorarne i lati oscuri. Cosa che pure faceva con entusiasmo. Riusciva a cogliere ogni connessione tra ciò che vedeva, che gli rivelavano le sue fonti e le informazioni che metteva assieme come un collezionista. Aggiungendo un po’ di fantasia e molto intuito riusciva così ad accordare mondi e i tempi: visibile e occulto, passato, presente e futuro.
«Non c’è nessun segreto nel prevedere le cose. Seguo le tendenze che mi si rivelano per esperienza, mi baso sui miei contatti e su quello che leggo, compresi i rapporti che riesco a trovare. Poi metto tutto in bella copia» ha detto Gérard. Un modus operandi canonizzato dal suo amico Jean-Louis Gergorin, uno dei fondatori del Centre d’analyse, de prévision et de stratégie del ministero degli Esteri francese: “un rapporto, per essere credibile, deve rifiutare l’opinione corrente, incrociare le fonti e i punti di vista. Esattamente quello che fa lui”.
“Lui fa un lavoro di reportage alla vecchia maniera. Cerca di comprendere senza giudicare. Le sue descrizioni crude, grezze, anticonformiste, sono vicine alla realtà“ ha commentato Hubert Védrine, diplomatico e politico socialista che non può essere accusato di simpatizzare con De Villiers, un reac, reazionario, disprezzato (ma letto) dall’intelligenza gauchiste.
Quel modo di lavorare, mettendo assieme crudo e cotto, nella tradizione dei grand reporter, razza in via d’estinzione, si rivela tanto più utile in posti come Bangkok, dove le analisi geopolitiche si confondono coi pettegolezzi dei bar. Me l’avrebbe confermato, qualche anno dopo, un personaggio che sembra uscito da uno dei romanzi di De Villiers, un intermediario d’affari vietnamita. Mi aveva dato appuntamento in una pizzeria sul fondo di un vicolo della Sukhumvit, la via centrale di Bangkok. Sapevo che aveva contatti d’affari un po’ con tutti e volevo verificare se le relazioni tra Thailandia e Usa fossero minacciate dai sempre più stretti rapporti del Regno con la Cina. Lui sorrise con quell’aria d’ironica compiacenza che gli asiatici d’un certo rango riservano ai farang, gli stranieri. «Non dimenticare che in Thailandia c’è il più grosso centro per le cover operation della Cia dopo quello di Langley» fu la risposta.
A osservare Bangkok come faceva De Villiers - o quel vietnamita – non stupiscono affatto i leaks di Edward Snowden secondo cui le ambasciate americane, britanniche, australiane e canadesi erano utilizzate per operazioni di cyber-intelligence in tutta l’Asia. Il documento di Snowden precisa che gli strumenti di sorveglianza sono spesso nascosti in false sovrastrutture architettoniche. Il che, a ben guardare, giustificherebbe il design futuristico dell’ambasciata australiana di Bangkok o di Phnom Penh.
Molti anni dopo, nel 2009, De Villiers è tornato in quella che nel frattempo era diventata la mia città per ambientarci un’altra avventura di Sas: “Trappola a Bangkok”.
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In questo caso la trama ruotava attorno a Viktor Bout, ex ufficiale dell’Armata Rossa divenuto trafficante d’armi. Su di lui avevano già scritto un libro: Merchant of Death: money, guns, planes, and the man who makes war possible. Il libro aveva anche ispirato il film “Lord of War” interpretato da Nicholas Cage. Nel 2008 Bout era stato arrestato al Sofitel Silom Hotel da agenti del CSD, la Crime Suppression Division thailandese, e della DEA, la Drug Enforcement Administration americana, che avevano agito in base a un mandato di cattura emesso dalle Nazioni Unite. Da allora Bout era stato al centro di una battaglia legale tra il governo Usa, che ne chiedeva l’estradizione, e quello russo, che lo dichiarava un “innocente uomo d’affari”. Per il governo thailandese era, di volta in volta, un problema o un’opportunità. Nel novembre 2010 è stato estradato negli Stati Uniti “improvvisamente, segretamente e in violazione sia delle norme internazionali sia della legge thai”, come si legge in un comunicato dell’ambasciata russa a Bangkok. Nel frattempo, il maestro del “romanquête”, il romanzo inchiesta aveva “messo in bella copia” tutta quella vicenda, aggiungendoci il personaggio di Ling Sima, bellissima e spietata colonnello dei servizi segreti cinesi. Accadeva proprio negli anni in cui, come oggi scoprono molti analisti, la Cina stava sviluppando un servizio di spionaggio in grado di competere con la Cia. Mettersi in mezzo tra Thailandia e Stati Uniti rientra perfettamente nella strategia cinese: incrinare le alleanze del nemico.
Per l’ennesima coincidenza anch’io stavo indagando su quella storia. Probabilmente le mie piste si sono incrociate con quelle di De Villiers: nel quartiere a luci rosse controllato dai russi o nelle hall dei grandi alberghi dove stazionano quei personaggi che a Bangkok “risolvono i problemi”. Ma non ci siamo incontrati.
Io, in realtà, Gérard De Villiers non l’ho incontrato mai. Non di persona. Ma lo conoscevo bene perché studiavo il suo personaggio. Leggevo tutti i suoi libri. Di due ho anche scritto un’introduzione quando
Segretissimo gli dedicò una collana. Li portavo con me nei posti dove andavo per un servizio se erano ambientati là. Non sbagliava una coordinata, un numero di via, la descrizione d’un interno. In diverse occasioni, che fosse in Birmania, Laos, Cambogia o Vietnam, De Villiers si è rivelato una guida perfetta. In un caso, a Yangon, credo proprio di aver incontrato un suo vecchio amico dello SDECE, il Service de documentation extérieure et de contre-espionnage (poi divenuto DGSE, Direction générale de la sécurité extérieure).
E poi avevo un amico – questa piccola storia è dedicata a lui - che aveva lavorato a Segretissimo e l’aveva intervistato. Mi aveva raccontato di un uomo che incarnava il suo protagonista, con una segretaria-guardia del corpo (o era più d’una?), inguainata in una tuta di latex nero.
In un modo o nell’altro, De Villiers era diventato un fantasma, uno spettro. Ma non di quelli, orrendi, che popolano gl’incubi e i film horror. Di quelli, misteriosi, affascinanti, ambigui, ma pur sempre in carne e ossa, che vivono nell’underworld o nel mondo del Grande Gioco globale, nella giungla degli specchi. In America li chiamano Spook. Come dice Yuri Orlov, il personaggio interpretato da Nicolas Cage alla fine del film “Lord of War”, un istante prima di essere liberato: «A volte hanno bisogno di un free lance come me. Mi chiami demone, ma sono un demone necessario». Accade sempre così: quando la realtà diventa fiction, perde la sua natura originaria, entra in una dimensione mitologica. Poi, quando si manifesta nuovamente come realtà, allora si sposta in una zona d’ombra.
In Thailandia, dove gli Spiriti condividono il nostro spazio ma in un’altra dimensione, osservandoci dalle saan phra phum, le Case degli Spiriti disseminate nelle strade, nelle abitazioni, nei giardini, la figurina di De Villiers andrebbe a raggiungere quelle di Jim Thompson o Tony Poe. Entrambi personaggi di cui ho seguito le tracce tra Thailandia, Laos e Malesia, e che, da oggetto di articoli si sono trasformati in spiriti che appaiono e scompaiono quando meno me l’aspetto. La loro vita è uno scorcio tra l’avventura, la storia, la geopolitica, il romanzo, una di quelle vicende che potevano compiersi solo in un teatro come il bacino del Mekong.
Jim Thompson, noto anche come “il re della seta thai” era arrivato in Thailandia alla fine della seconda guerra mondiale come agente dell’Office of Strategic Services (OSS), antesignano della Cia. Poi si era dimesso per dedicarsi agli affari e alla collezione d’arte che raccoglieva nella sua splendida casa in teak sul bordo di un khlong, un canale. Secondo molti, però, continuava il suo vecchio lavoro da free lance. Quella casa dove riceveva le celebrità di passaggio a Bangkok era una centrale operativa dove si raccoglievano informazioni vitali per un’America che stava per perdersi nelle giungle del Vietnam. Col tempo, però, Thompson divenne sempre più simile a Thomas Fowler, il personaggio del romanzo di Graham Greene Un americano Tranquillo, più attento alle sfumature nel sorriso di un Buddha che alle strategie politiche. Una storia che ha alimentato e alimenta i sospetti sul mistero della sua scomparsa, il giorno di Pasqua del 1967, lungo un sentiero delle Cameron Highlands, nel centro-nord della Malesia.
Anthony Poshepny, meglio conosciuto come
Tony Poe, invece, è morto in pace il mattino del 27 giugno 2003. Dopo la seconda guerra mondiale, che aveva combattuto da marine sul fronte del Pacifico sud-occidentale riuscendo a sopravvivere allo sbarco di Iwo Jima, divenne un agente della Cia. Negli anni Sessanta fece base in Laos, conducendo la sua personale guerriglia contro i Viet Cong e il Pathet Lao, con incursioni in Cina e Birmania, da cui, dicono, tornasse con trofei di collane d’orecchie. Sembra che il personaggio del colonnello Kurtz di “Apocalypse Now” sia stato concepito a sua immagine. Alla fine, però, anche Tony cominciò a dubitare della guerra. «Fu la semplice realtà, più di qualunque altra cosa, a sconfiggere Tony» racconta un agente ai suoi ordini.
La realtà sta sconfiggendo i miti e forse la morte di De Villiers segna davvero un passaggio. Quello tra la cosiddetta humint, l’intelligence in cui erano protagonisti gli uomini, e la cyber-intelligence in cui tutto si svolge nell’ennesimo mondo parallelo, il cyberworld. Non a caso La lista nera, ultimo romanzo di un altro grande scrittore di spionaggio,
Frederick Forsyth, si sviluppa soprattutto in questo nuovo teatro. Agli uomini, come quelli del Joint Special Operations Command, è riservato il lavoro che non riescono a compiere i droni.
«Il cyberworld è la nuova frontiera del selvaggio west» ha detto il Generale Dani Arditi, ex presidente del National Security Council israeliano, in occasione della
conferenza sul Cyber Warfare che si è recentemente svolto a Bangkok. Ma ha aggiunto che, proprio per questa natura selvaggia – come nella wilderness of mirrors - «Bisogna essere flessibili. Nulla è stabile in questi giorni». E ha concluso con un sorriso: «Viviamo in tempi interessanti». Mi ha ricordato De Villiers.