Prendi Ancona, ad esempio

«Ancona non cambia, ma ci si vive bene». Ancona diviene una metafora dell’Europa.
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“Vedutina” di Ancona

Scritta da un anconetano, sia pure residente all’estero, la seconda affermazione può sembrare campanilistica. Ma è giustificata dalla prima, detta da un altro anconetano residente all’estero. Quest’ultimo è un personaggio di spessore: il dottor Giovanni Capannelli, consigliere speciale del direttore dell’Asian Development Bank Institute, un think-tank, un centro studi sulle economie asiatiche.
Quei due anconetani espatriati si sono incontrati, in uno di quei giochi di coincidenze che dimostrano la Teoria dei piccoli mondi, al Business & Investment Summit che si è svolto a Phnom Penh in parallelo al Summit dell’Asean, l’Associazione delle Nazioni del Sud-Est Asiatico.
Il summit economico, in un certo senso, si è rivelato più interessante di quello politico. Soprattutto perché ha permesso di comprendere e analizzare i megatrend che stanno spostando a est il centro del mondo.
Nell’intervista che mi ha concesso dopo il suo intervento, Capannelli li ha definiti “inesorabili”, delineando quindi uno scenario di estrema complessità che a tratti risultava difficile da comprendere. Mentre parlava, cercando di seguire le sue analisi, non ho potuto fare a meno di notare un accento marchigiano, e lui ha puntualizzato, come fa la maggior parte degli anconetani: «di Ancona». E’ stato allora che Ancona è divenuta una metafora di ciò che rappresenta l’Europa nello scenario globale, asiatico, in particolare. Per quanto il vecchio continente sia in un momento di stasi evolutiva, può ancora definire un modello culturale. A condizione che se ne abbia coscienza e capacità di affermarlo. Grazie a quell’esempio, quindi, è stato molto più semplice capire le dinamiche e le possibilità del futuro prossimo venturo. Che, alla fine, grazie ad Ancona, non appare così cupo.
E poi bisogna anche ammettere che l’Italia al Summit Asean era ben rappresentata da un anconetano. Che non ero io. Ma con me eravamo in due.
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Avere e non avere

Sapete com’è la mattina presto a Bangkok, con i venditori di zuppe che servono la colazione? Bene, attraversai il fiume, poi presi un mototaxi che mi portò a Silom road, una delle strade principali della città. Smontai a un incrocio di fronte a un portale dal tetto a pagoda su un lungo muro grigio. Oltre quella porta c’era una baracca e una tettoia arredata con un letto, una cucina, un televisore, un ventilatore. Un vecchio fumava accanto al ventilatore. Sul letto una donna guardava la tv allattando un bambino. Sorrisero tutti salutando.
Dopo quella casa-cortile si apre un largo spiazzo disseminato di tombe. E’ un vecchio cimitero cinese abbandonato. Dicono che le salme siano state traslate altrove. Ma le tombe, per quanto coperte da erbacce e qualche sacchetto di rifiuti e dalle lapidi scrostate, non sembra siano state aperte. Di fronte a qualcuna ci sono ancora residui d’offerte, fiori o frutti appena secchi o marciti, come se li avessero deposti non troppo tempo fa.
Un albero di ficus ombreggia le ultime tombe e con le radici aeree che piovono da rami forma una specie di sipario. Oltre quella cortina vegetale c’è una costruzione in rete metallica e lamiera. E’ il Fighting Spirit Gym, una palestra dove s’insegna e pratica la Muay Thai, la tradizionale arte marziale thai.
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E’ un posto pulito, illuminato bene, fresco perché aperto, popolato da animali: sette cani, gatti, uno scoiattolo, un pappagallo, due iguane. Trovi sempre un cane accucciato sul ring o il pappagallo appollaiato da qualche parte. Gli istruttori sono tutti ex professionisti, qualcuno combatte ancora. Si divertono molto osservando i tentativi dei farang, gli stranieri come me, di mettere potenza in un calcio. Ma sono gentili. «Non male per un uomo anziano». Stranamente non hanno paura dei phi, gli spiriti o i fantasmi, che potrebbero infestare quel posto. «Qui c’è buona energia» dice l’australiano che ha aperto la palestra, un personaggio che sembra uscito da un film d’azione, coperto da tatuaggi che contrastano con il sorriso tranquillo.
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Ecco, questo è un frammento di una mattina a Bangkok. Sarebbe piaciuta a Hemingway, cui sono debitore di citazioni sparse in queste righe. Soprattutto di avermi fatto ripensare ad Avere e non avere.

Tornato a casa, appena finito di sudare, ripresi a scrivere una delle tante storie che osservo e scrivo per qualche giornale. Spesso senza sapere quale, né se saranno pubblicate. Lo faccio lo stesso: in fondo possono sempre finire nei Bassifondi. E poi non so fare altro, nemmeno tirar bene dei calci.
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