Il rischio dell'Icona

imagesLa Signora Aung San Suu Kyi è finalmente libera. Il difficile viene adesso. Tutti gli scenari sono possibili. Potrebbe essere che la giunta militare abbia davvero imboccato la road map per la democrazia. E’ un dubbio da porsi, per correttezza etica ancor prima che d’analisi politica. Ma è un dubbio che si scioglie molto presto. Basta leggere la lucida, sintetica analisi di Bertil Lintner, uno dei più acuti osservatori degli affari birmani, pubblicata sul New York Times.
Per il momento il governo birmano sembra aver raggiunto un obiettivo importante sulla via della legittimazione. Altro traguardo importante è quello di poter giocare su tavoli diversi. Non solo con Cina, Russia, l’India e Asean. Ma pure con Stati Uniti e Unione Europea. Ottimo risultato anche per le multinazionali che fanno affari con i militari birmani. Adesso sembrano un po’ meno sporchi.
Molto dipende dalla Signora. Deve provare le sue capacità politiche e diplomatiche. C’è già chi comincia a metterle in dubbio. Come se, il coraggio, la dignità, la fermezza morale dimostrati negli ultimi vent’anni a questo punto non fossero più sufficienti. Il simbolo è tale solo se agli arresti.
Diamole il tempo necessario. Ammesso che i generali glielo concedano. E può ottenerlo solo con una politica internazionale seriamente impegnata in questo teatro, che la riconosca come interlocutrice a tutti gli effetti.
Sono analisi che devono essere compiute. Freddamente. Altrimenti l’opportunità può trasformarsi in un limite. Il rischio è quello di una “tibetizzazione” della Birmania. O meglio, della sua opposizione. Che potrebbe essere l’obiettivo voluto dai generali. “Non stiamo parlando di una semplice dittatura militare” ha
scritto Lintner. “Questa è una dittatura che è divenuta esperta nel mantenimento del potere”.
Il rischio è che Aung San Suu Kyi divenga l’ennesima “icona” da t-shirt, canzoni rock, oggetto di marketing.
Un Che Guevara femminile, pacifico e con un fiore tra i capelli. Una sorta di santa laica paragonata a Mandela, Gandhi, il Dalai Lama, senza alcuna analisi delle differenze di contesto, storia, strategia, geopolitica.
Il rischio è che della Birmania ci si ricordi solo in occasione di qualche manifestazione della pace, di un megaconcerto.

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Il senso dell'onore

«Non sei stato un uomo d’onore» mi dice il funzionario del consolato Birmano a Bangkok ridandomi il passaporto.
E’ la sua spiegazione al fatto che mi hanno negato il visto. Anzi, con un bizzarro senso dell’ironia, prima me lo hanno concesso applicandolo sul passaporto e scrivendoci journalist. Poi lo hanno annullato con un timbro: Cancelled.
Io, in effetti, non sono stato sincero: nella domanda per il visto ho mentito sulla mia professione. Non sul mio scopo. Avevo detto che volevo andare a Rangoon perché mi sembrava un momento interessante.
Al funzionario mi sono limitato a rispondere che lui e tutti quelli come lui non mi sembravano le persone più adatte per parlare d’onore.
Altre volte, in passato, il visto mi era stato concesso. Sembrava quasi un gioco delle parti. Io mentivo e loro fingevano di crederci. Evidentemente, in questo momento, dopo le “elezioni”, non vogliono testimoni.
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“Anatomia di un’elezione”: è il titolo di un bell’articolo di Patrick Winn pubblicato sul sito Global Post. Anatomia è un termine perfetto. Si compie su un cadavere, su qualcosa che non ha vita. Adesso che il morto è su un tavolo dell’obitorio, ci accorgiamo che non ha vita. Prima, quando era disteso per strada, sanguinante, massacrato, allora no, non era morto. Poteva solo esserlo. Forse. Forse chi l’aveva ucciso poteva farlo risorgere.
E’ ciò che è accaduto. Adesso, a giochi fatti, tutto l’Occidente scopre che le elezioni birmane sono state una farsa. Lo stesso partito d’opposizione – quello che si era opposto al boicottaggio richiesto dalla Signora Aung San Suu Kyi – ne chiede l’annullamento. Prima era stato un continuo ripetere di se, ma, forse, sottili distinguo sul meno peggio, sull’unica possibilità, sulla mancanza di alternative. Più corretti, in un certo senso, i governi dell’Asean e la Cina: confermano il loro giudizio, le elezioni sono un “passo avanti”.
Il commento migliore è stato quello di Tim Heinemann, ex colonnello dell’esercito USA oggi a capo di Worldwide Impact Now, una Ong che assiste le popolazioni oppresse. «Le elezioni sono state come mettere la facciata di una chiesa davanti a un bordello».
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