E' tempo di cambiare

BANGKOK. Embedded tra le camicie rosse che da domenica occupano quartieri di Bangkok chiedendo lo scioglimento del parlamento thai e nuove elezioni. Il mezzo di trasporto, in uno dei chilometrici cortei, è un veicolo armato di lanciarazzi. Alla maniera thai: una vecchia moto dipinta di rosso con agganciato un carretto. A bordo una go-go girl tatuata che si affretta a fornire il suo cellulare e due signore che offrono banane e riso. Il lanciarazzi è un tubo di metallo. Tirando un cordino il pilota ne fa uscire un fallo di legno dalla punta rossa. Ogni lancio è accompagnato da inequivocabili inviti rivolti al premier Abhisit Vejjajiva.
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Scene del genere si ripetono a migliaia. Ma oltre il folclore, il colore locale diventa sempre più rosso. Alcuni leader dell’UDD, lo United Front for Democracy against Dictatorship, maggiore movimento d’opposizione, sono ex quadri del CPT, Communist Party of Thailand, attivo negli anni ’70. Alcuni, come il dottor Weng Tojirakarn o Jaran Ditthapichai, organizzatore di scuole di formazione politica, vantano lunghe permanenze nella giungla. «Siamo qui per dichiarare una guerra di classe» ha gridato alla folla radunata sotto il sole torrido Nattawut Saikua, carismatico leader della protesta.
Tra quella folla di cento o duecentomila persone, secondo le fonti, non si vedono ritratti del re, che forse per questa parte del popolo comincia a essere un po’ meno venerato. Sean Boonpracong, portavoce dell’UDD, ripete come un mantra il primo principio del movimento, “il re è il capo dello stato”, ma su Facebook invita a non fare commenti sulla monarchia. Poche anche le bandiere thai, simbolo di una Khwampenthai, “thailandesità”, che questa gente sente dominata dal sistema dall’ammat, l’élite. Molti i ritratti dell’ex premier Thaksin Shinawatra, deposto da un colpo di stato nel 2006, condannato a due anni di carcere per conflitto d’interessi e da allora in “esilio volontario”. Molte anche le effigi di Phraya Taksin, il generale che si fece re nel 1769, appoggiato dalle masse popolari, cui diede l’idea di essere cittadini e non soggetti (salvo poi dichiararsi Sotapanna, semidio). Più o meno lo stesso percorso compiuto da Thaksin. «Thaksin aveva tendenze autoritarie, ma il suo crimine è stato voler scardinare il vecchio sintema delle istituzioni non elette, dell’esercito, dei karachakan, i funzionari pubblici. È il primo leader che abbia fatto sentire il popolo partecipe della vita politica» dice Federico Ferrara, professore di Scienze Politiche alla National University of Singapore e autore del saggio-reportage Thailand Unhinged, “Thailandia scardinata”.
Thaksin resta un simbolo per il pu-noi, il “popolo minore”, le masse più povere. Ma sta diventando un compagno di strada sempre meno gradito ai leader dell’opposizione. «Non sto lottando per Thaksin, sto lottando affinché il mio paese divenga una vera democrazia» precisa il dottor Weng. Non a caso le manifestazioni sono iniziate due settimane dopo il cosiddetto “giorno del giudizio”, il 26 febbraio, quando la corte suprema ha confiscato più della metà del patrimonio (2,3 miliardi di dollari) dell’ex premier, con la motivazione di averla accumulata abusando del suo potere. Non a caso uno degli interventi più apprezzati dall’opposizione è stato quello di Giles Ji Ungpakorn, socialista thai in esilio in Inghilterra: “Molti spiegano questa lotta come una disputa tra Thaksin e i conservatori, tra il vecchio ordine feudale e il moderno sistema capitalistico. Ma in quest’analisi manca l’elemento fondamentale: la nuova volontà del popolo”.
In questo scenario il premier Abhisit, considerato un privilegiato che è riuscito a evitare il servizio militare, non ha potuto che dichiarare impraticabili le proposte dell’opposizione. Ma il rischio è che proprio Abhisit, ex professore di economia formato a Oxford, e non sempre d’accordo col generale Anupong Paochinda, capo di stato maggiore, venga sostituito da un vero e proprio “uomo forte”.
Quella che si è instaurata in Thailandia dopo il golpe del 2006 e il “ribaltone” con cui ha preso il potere l’attuale governo nel 2008, infatti, non è una dittatura. E’ una “Thai Style Democracy”, in cui potere e dovere di governare competono a coloro che detengono il baramee, l’ideale di giustizia, non a chi compra voti o promette favori. “La democrazia è solo il formalismo delle elezioni o richiede sostanza per essere reale?” chiede retoricamente Stephen B. Young, direttore della Caux Round Table, network di uomini d’affari che sostengono un approccio etico al capitalismo, molto vicino alla nobiltà thai.
Ciò che è messo in discussione in Thailandia va ben oltre la politica locale. E’ il concetto di democrazia. Tanto che la nazione diviene paradigma della “morte della democrazia” descritta da Joshua Kurlantzick, esperto di politica del sud-est asiatico, su Newsweek del 22 marzo. In Asia, infatti, sono sempre più numerosi i sostenitori di un “dispotismo illuminato”. Ma qui e ora il concetto non si richiama a ideali illuministici. Assume il significato buddhista d’illuminazione, culmine di una Via che può compiersi nel corso d’innumerevoli reincarnazioni, seguendo gli obblighi del Dharma, la “legge”. Un modo per mantenere lo statu quo e definire la politica nell’ambito di un sistema gerarchico.
Intanto i rossi continuano le manifestazioni, mix tra la festa dell’Unità, il rave party e le feste che si celebrano in sud-est asiatico per l’inaugurazione di un tempio. E di giorno in giorno il loro colore diventa sempre meno pittoresco e più inquietante. Come quello dei mille litri di sangue che stanno raccolti a 10 cc per manifestante per versarli di fronte a parlamento e alla sede del partito di governo.
«Basta che i rossi non divengano come i khmer rossi» dice un’elegante signora del locale “jet-set dal sangue blu”. In realtà non sono “l’orda” descritta dai giornali filogovernativi ma potrebbero diventare altro. Magari in mano a boss locali con la vocazione del “Signore della Guerra”. Possibilità non così remota osservando il compiacimento con cui esponenti dell’opposizione si circondano di bodyguard in nero.
«Ci siamo così abituati a essere il paese del sorriso, del “mai pen rai”, non preoccuparti, che non abbiamo fatto i conti con le ombre che si annidano dietro questa immagine» dice lo scrittore e mistico buddhista Tew Bunnag. «E’ tempo di cambiare. E il mutamento, come sappiamo, è spesso doloroso».

Articolo del 16 marzo 2010.
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The Utility of Assassination

E’ utile l’assassinio dei nemici da parte dei servizi di sicurezza? La risposta nell’articolo pubblicato sul sito di Stratfor, società di analisi e informazioni geopolitiche. L’articolo, con la sua risposta, può essere discutibile. Ma è un esempio di come trattare con freddezza, senza essere obnubilati dal politicamente corretto, argomenti dichiarati tabù.

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This report is republished with permission of STRATFOR

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