Roulette Cambogiana

«Vai in Cambogia?». Per il funzionario del ministero degli Esteri Thailandese è scontato che in questo momento la meta di un giornalista residente a Bangkok sia la Cambogia. Il che non rassicura circa l’evolversi dell’ennesima crisi tra i due paesi.
E’ iniziata a fine ottobre, durante il Summit dell’
Asean, l’organizzazione dei paesi del sud-est asiatico, quando il primo ministro cambogiano Hun Sen disse che aveva intenzione di dare asilo all’ex premier thailandese Thaksin Shinawatra e nominarlo suo consigliere economico.
Thaksin, deposto da un colpo di stato nel 2006, da allora vive in esilio spostandosi tra Sud America, Dubai, Sud Africa (dove sembra si dedichi al commercio dei diamanti) e Cambogia. Nel frattempo un tribunale thai lo ha condannato a due anni per abuso di potere e corruzione. Secondo il suo “fraterno amico” Hun Sen, è vittima di una persecuzione paragonabile a quella subita dalla leader dell’opposizione birmana Aung San Suu Kyi, che ha trascorso gli ultimi vent’anni agli arresti.
Nonostante le proteste del governo thai, che ha giudicato la dichiarazione di Hun Sen come un’interferenza nei suoi affari interni, il premier cambogiano ha mantenuto il suo impegno e la settimana scorsa, con decreto firmato dal re di Cambogia Norodom Sihamoni, ha nominato Thaksin consigliere economico. Pochi giorni dopo il “fuggitivo”, come lo definiscono in Thailandia, è arrivato a Phnom Penh accolto con tutti gli onori. «Può aiutare la Cambogia a diventare ricca come la Thailandia» ha dichiarato Hun Sen. Speranza che Thaksin ha cominciato ad alimentare lo scorso anno, quando ha presentato un piano per trasformare in una “seconda Hong Kong” la provincia marittima cambogiana di Koh Kong.
Puramente formale, quindi, l’immediata richiesta di arresti ed estradizione di Thaksin rivolta al governo cambogiano da parte del procuratore generale thailandese.
Nel frattempo i due paesi hanno richiamato i rispettivi ambasciatori e la Thailandia ha cancellato il memorandum d’intesa con la Cambogia circa le zone di “sovrapposizione” ai loro confini. Come se tutto ciò non bastasse Thaksin ha rilasciato un’
intervista al Times in cui, sia pure in modo vago, sembra auspicare una riforma della monarchia thai, istituzione considerata sacra, tanto più in un momento estremamente delicato per le condizioni di salute del venerato monarca, Bhumibol Adulyadej.
Insomma, nonostante le sue dichiarazioni, secondo cui non avrebbe mai agito contro gli interessi, del suo paese, Thaksin si è trasformato nel detonatore di una crisi che potrebbe sfociare anche in un conflitto. In cui la Thailandia ha tutto da perdere.
Secondo alcuni osservatori, qualora la crisi dovesse peggiorare, un piccolo, povero paese come la Cambogia, che tutti ancora ricordano per gli orrori subiti durante il periodo dei kmer rossi (di cui Hun Sen fu tra i primi protagonisti), susciterebbe molta più simpatia della Thailandia. Senza contare che Thaksin potrebbe davvero apparire come un perseguitato.
Hun Sen, invece, non ha nulla da perdere. Anzi, la crisi sta già canalizzando il nazionalismo khmer nella direzione che vuole lui: contro i thailandesi. In questo modo riesce a distrarlo dalla crescente insofferenza verso vietnamiti, che hanno invaso il paese nel 1979, hanno prescelto Hun Sen come primo ministro nel 1985 e in modo più o meno occulto continuano a controllare il governo.
In questa prospettiva, c’è da chiedersi se gli Stati Uniti sosterranno la causa cambogiana in appoggio i vietnamiti (che si stanno dimostrando i migliori alleati nell’area) sacrificando il loro stoico alleato thai, mentre i cinesi si schiereranno con i thai in funzione antivietnamita e antiamericana sacrificando Thaksin che era consideravano un partner affidabile, sangue del loro sangue. E’ l’ennesima mano di un gioco cominciato trent’anni fa. A carte rimescolate.

Articolo pubblicato su
Il Foglio Online del 12 novembre

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